Presentazione

Raccontare il mestiere di scrittore

Intervista rilasciata nel dicembre 2003 da Gloria Chiappani Rodichevski al portale di letteratura Raccontare, qui proposta in una versione riveduta ed aggiornata.

Come è nata la sua passione per la scrittura?

La passione per la scrittura mi deriva da mia madre. La critica disse di me: «"scende per li rami" essendo la figlia [...] di Celeste Chiappani Loda». Mia madre ha dunque avuto una fondamentale importanza nella mia formazione intellettuale e scritturale.

Iniziai a comporre poesie all'età di cinque anni, ma – non sapendo ancora scrivere – dettavo proprio a mia madre le mie composizioni, che ella raccolse in un quaderno. Quando ne fui in grado, cominciai a scriverle io stessa in quel quaderno. Successivamente mi dedicai anche alla prosa con racconti, articoli, opere teatrali, critica, diario ed altro.

Con mia madre c'è un continuo confronto dal punto di vista intellettuale e scritturale. Nacqui che ella scriveva già, essendosi dedicata alla scrittura in età adolescenziale, quindi sono cresciuta immersa nel suo tessere parole. Cominciai prestissimo a leggere le sue opere. Durante le scuole elementari le chiedevo di farmi leggere le poesie più semplici che trattavano temi naturalistici (qualcuna la imparai a memoria) e i racconti i cui protagonisti fossero animali. Rammento anche nitidamente che, verso gli undici anni, desiderai leggere il suo libro di memorie d'anteguerra, Ognuno è solo, ma desistetti dopo aver affrontato la prima mezza facciata perché era troppo difficile per me.

Tra i ricordi più significativi ce n'è uno che risale ai tempi del liceo: quando tornavo a casa per pranzo, mentre io consumavo il pasto (mia madre aveva già provveduto per sé un’ora prima), ella mi leggeva un nuovo brano del romanzo che allora stava componendo, Berto-coscienza. Era gioia vedere una storia che prendeva corpo e si snodava, mentre io percorrevo i miei giorni di adolescente, che dividevo tra studio, letture e scrittura.

Attualmente trascorriamo ore intere in un reciproco leggerci (naturalmente non parlo solo della rilettura delle bozze, la cui correzione è necessaria quando pubblichiamo). I nostri stili, sia poetici sia prosastici, sono completamente diversi e non di rado ci divertiamo quando una di noi due trasforma un componimento – soprattutto poetico – dell'altra secondo il proprio stile. Scriviamo però anche poesie a quattro mani, così come facciamo mio marito e io. E pure poesie a sei mani.

Abita in una grande città o in un piccolo centro? Pensa che possa essere influente il luogo dove si vive?

Abito in una piccola città (35.000 abitanti circa). Se è vero che ognuno è cittadino del proprio tempo, può esserci del vero anche nell'affermare che ognuno è cittadino del proprio paese e del proprio luogo di residenza. Questo però non vuol dire che ci si (debba) ancora(re) in un luogo, considerandolo la fonte unica delle proprie esperienze: se ciò avvenisse, significherebbe essersi automuniti di un efficace paraocchi convergente.

Ha un titolo di studio inerente all’ambito letterario? Se sì, pensa che questo l’abbia aiutata nella sua carriera? Se no, pensa che questa mancanza l’abbia ostacolata nel suo successo?

Sono laureata in Lingue e letterature straniere moderne con un piano di studi ad indirizzo umanistico e ho successivamente seguito altri corsi e dato altri esami in materie diverse da quelle della mia laurea. Gli studi che ho seguito mi hanno certamente permesso di formarmi una base culturale all'insegna dell'eclettismo. Ritengo infatti che soltanto attraverso la poliedricità ci si possa formare l'esperienza indispensabile per scrivere.

Secondo la sua opinione scrivere è un'arte che si avvale in prevalenza dell'istintività?

Se per istintività Lei intende ispirazione (l'«ingenium» oraziano contrapposto all'«ars»), Le rispondo un netto no. Uno scrittore (con la esse maiuscola, intendo) deve essere necessariamente molto colto (cultura di vita oltre che libresca) e saper maneggiare gli strumenti del mestiere con una maestria senza eguali. Chi scrive, quindi, non lo fa mai in una sorta di trance. Tra gli autori del sottobosco si trova assai spesso chi afferma di trasferire sulla carta direttamente ciò che «esce dalla penna», senza tanto pensarci, vale a dire seguendo l'ispirazione del momento e non volendo – dopo l'atto creativo – procedere ad analisi di sorta. Questo atteggiamento è accettabile solo agli inizi di una carriera, quando cioè davvero ci si crogiola nello stupore del fiume di parole che sgorga con strabiliante facilità; è maturando che ci si rende invece conto che quello scrivere a ruota libera deve essere arginato ma soprattutto addomesticato usando i ferri del mestiere. Tra essi la lima di oraziana memoria. Il labor limae è indispensabile: per il suo tramite non cedere alla superficialità diventa un habitus, inoltre esso insegna ad essere meno indulgenti con se stessi. Flaubert ‑ si dice ‑ limò una frase per anni.

Quanto c'è di personale nei suoi testi?

Nel diario e nell'epistolario c'è tutto. Nel resto c'è da poco a molto a tutto.

Si potrebbe definire la sua scrittura "intimista" e che cosa s'intende, secondo lei, per scrittura intimista? In quale tipo di genere letterario si possono incanalare i suoi scritti?

Oggigiorno spesso si denuncia un disorientamento generale che porta chi vuole esprimersi attraverso la scrittura a nascondersi nelle pieghe più risposte di se stesso per dire le sofferenze d'un'anima incompresa e dolorante che subisce lo squallore e il vuoto con cui la modernità ci ha travolto. E il risultato di questo dire è una letteratura «sentimentalista ed intimista» o «psicologico-intimista», come viene etichettata.

Affermerei che questo incipit scoraggia ad autodefinirsi o a lasciarsi definire scrittori intimisti. Forse recuperando le radici storiche della poesia intimista le cose si ridimensionano. Oppure crollano con fragore. Storicamente e stilisticamente infatti la poesia intimista è quella del gruppo dei crepuscolari i quali (estendo qui anche agli altri il merito che Montale riconobbe a Gozzano per primo) riuscirono «ad "attraversare D'Annunzio" per approdare a un territorio [loro]». Nel suo contesto storico-letterario, quindi, la reazione crepuscolare aveva il sapore dell'antidannunzianesimo e della ribellione ad una società intollerabile con i suoi problemi e con i suoi travagli; ribellione messa in atto per il tramite di un estraniamento e di un conseguente cercare rifugio in un mondo diverso (quello interiore oppure quello passato che veniva considerato un mondo buono).

Che il crepuscolarismo possa giustificare anche noi con la nostra inettitudine alla vita – troppo spesso camuffata da un attivismo coûte que coûte – quale conseguenza di un mondo nevrotico? Che possa cioè giustificare quell'atteggiamento scritturale che si incunea nelle «strettoie degli psicologismi di maniera, degli individualismi, dei personalismi oltre che dei virtuosismi formali» e si concreta «in una prosa e poesia volte a dire soprattutto di particolari vicende interiori se non di situazioni immaginarie, da sogno, ad evadere la realtà ed estenuarsi nella ricerca dei linguaggi più artefatti o dei versi più elaborati al fine di rendere un’interminabile vastità e varietà di situazioni» (Antonio Stanca)?

Per rispondere a questo dovremmo prima domandarci quale dannunzianesimo, oggigiorno, abbiamo da attraversare per recuperare noi stessi, per darci un tono, per accogliere l'estraneo in un territorio esclusivo, del quale noi siamo i sovrani inusurpati.

Il dannunzianesimo del nostro ventunesimo secolo altro non è che quell'attivismo-arrivismo cui ho accennato sopra, che ci condiziona e ci rende nevrotici laddove sentiamo di fallire. Nevrotici, cioè, quando non siamo all'altezza dei ritmi competitivi che ci facciamo imporre dall'esterno ma anche all’altezza di forme fisiche perfette – che pure ci ostiniamo a cercare – all'insegna di un rivisitato mito dell'eterna giovinezza.

La mia scrittura non è gozzaniana o crepuscolare. C’è certamente (molto) intimismo nei miei scritti, ma non solo questo.

La mia poesia è sicuramente interessata ad un atteggiamento ermetico, ma non si risolve totalmente in esso; infatti, dato che ho cominciato a scrivere all’età di cinque anni, il mio poetare ha subito un’evoluzione pure in termini di ricerca. Ho quindi composto – approdandovi dopo anni – liriche brevissime (anche di un solo verso) con versi brevissimi (anche di una sola sillaba), che definirei ermetiche; ho scritto poesie lunghe con versi che addirittura eccedono l’endecasillabo; ho scritto ballate; ho inoltre composto in inglese, in francese e in spagnolo; ho scritto poesie visive. Non uso la rima e scrivo in versi liberi.

La mia prosa è diaristica quando compilo il mio «giornale» o in alcune lettere dell’epistolario. Assume invece un atteggiamento saggistico negli articoli o in scritti affini. Compongo inoltre prosette veloci, essenziali, improntate ad un’ironia ora distaccata ora amara. Tra i racconti ve ne sono di giocati su commistioni piscologico-mitologico-realistiche. In essi spesso si parte da situazioni non reali, dove viene ad esempio analizzato l’aspetto umano di alcuni personaggi mitologici; situazioni che poi si sfilacciano lungo il cammino per giungere ad un epilogo di una corporeità talvolta schiacciante. Oppure l’incipit porge una situazione realistica, ma le mire della narrazione fanno presto perdere le tracce della concretezza sì che il lettore si trova ad approdare su spiagge inquiete.

Nell’elencazione mi fermo qui.

Ha mai acquistato dei manuali per affinare la tecnica? Li ha trovati utili? Può citarne alcuni particolarmente interessanti?

Non ho mai acquistato qualcosa di simile: diffido da manuali del tipo Come imparare a suonare il pianoforte in ventiquattro lezioni. Naturalmente comprendo che Lei parla di affinare la tecnica e non di apprenderla ex novo, ma il mio senso polemico sull'argomento ritiene il distinguo trascurabile.

Ha seguito corsi di scrittura creativa e cosa ne pensa in genere?

No, non ne ho mai seguiti. Che cosa ne penso? Le risponderò citando Carlo Lucarelli: «La filosofia di chi frequenta un laboratorio di scrittura creativa dovrebbe essere la stessa del ragazzo che va alle scuole di calcio del campetto parrocchiale. Si interessa di calcio e rimane in forma.»

La società, la sua famiglia, il luogo in cui vive… pensa che siano fattori determinanti per il successo di un artista?

Ogni artista in potenza diventa artista in atto e cioè a tutti gli effetti se trova l'hic et nunc: Shakespeare nato e vissuto tra gli ottentotti sarebbe stato solo una persona intelligentissima (e probabilmente frustrata, ma questa valutazione occorrerebbe farla passare sotto le forche caudine della sociologia), invece egli si trovò in una congiuntura storica che consentì al teatro elisabettiano la libertà di vivere e cioè di diventare quello che diventò.

Ha mai avuto un «idolo letterario» del quale ha cercato di seguire le orme? Quali sono il suo scrittore e il suo libro preferito e perché?

Non ho mai avuto idoli letterari da emulare e mai ho cercato modelli, perché tutto è formativo: imparare a memoria brani dai classici; impadronirsi degli strumenti per riuscire ad analizzare un componimento letterario; sforzarsi di penetrare le leggi macroeconomiche; sorbirsi la lettura di un romanzetto rosa, per dovere di conoscenza di questo genere letterario; e altro ancora. L'essenziale è saper ricondurre all'unità tutte le esperienze che ci derivano dalla cultura libresca e da quella di vita.

Il mio docente di letteratura italiana all'università soleva ripetere: «La poesia poggia su un'ecatombe di cultura.» Come matricola che aveva appena varcato la soglia della vita d'ateneo, non misi neppure in dubbio che egli non alludesse solo alla cultura libresca. Fu durante il cammino (nell'università e nella vita) che scoprii una bivalenza insita nel termine cultura: senza esperienza di vita la letteratura (sia essa in prosa sia essa in poesia) rimane puro verbo estetico, ma senza essersi fatti le ossa attraverso uno «studio matto e disperatissimo» non si raggiungerà mai la capacità di dare un fondamento logico – espresso per il tramite del linguaggio idoneo ad ogni situazione – all'esistenza, rendendosi interpreti delle sue istanze. L'adagio che afferma come «non si nasca imparati» ha questo sapore.

Non ho dunque idoli e modelli letterari: ho amori duraturi, per la qual cosa posso citare gli autori di cui mi sono innamorata; e posso citare anche singoli libri che hanno contribuito alla mia formazione o che mi hanno regalato la gioia sublime che può dare solo la lettura di capolavori (o l'ascolto o la visione di capolavori musicali e di opere pittoriche, scultoree e coreografiche).

Di un autore soltanto mi sono, all'età di sedici anni, perdutamente innamorata nel senso letterale del termine: Giacomo Leopardi. Da allora ho continuato a leggere questo grande e ad imparare a memoria alcuni suoi Idilli, al di fuori dei miei obblighi scolastici, su su fino all'anno della maturità, anno in cui approfondimmo la personalità e le tematiche del Recanatese. All'università, poi, lo scelsi per la parte istituzionale d'un esame.

Quanti palpiti! Mi commuovevo fino alla radice di fronte alla sua sofferenza e provavo un senso di struggimento per non poter essergli accanto e lenire le sue pene.

Ho avuto palpiti (anche se non da innamorata, ma sicuramente da amica affettuosissima, sollecita e impotente – perché di fronte al dolore altrui si è impotenti) pure per Giovanni Pascoli e per il suo malato sentire che mi ha dolorosamente intenerito. Ho sentito vicina a me Emily Dickinson, il cui stile mi affascina. Ancora: adoro il Manzoni dei Promessi Sposi, un'opera che sta alle calcagna degli studenti lungo tutto il loro iter scolastico, ma che si dovrebbe leggere davvero molte volte per trarne giovamento: se si vuole scrivere occorre scrivere a perdifiato, ma occorre anche leggere tantissimo.[1] E non voglio tralasciare il Foscolo dei Sepolcri e dei Sonetti, Dante, Petrarca, Shakespeare, Pirandello, Pavese, García Lorca, Neruda, i tre Ermetici italiani, T. S. Eliot, Anouilh, Beckett, Ionesco e gli ingiustamente poco noti Vittorio G. Rossi e Raffaello Brignetti. Non vuole essere un elenco esaustivo, il mio, ma il ricordare alcuni tra coloro verso i quali ho un forte debito di riconoscenza perché mi hanno permesso di affinare il mio sentire attraverso l'arte e di capire come funziona la scrittura.

Tutto questo mio parlare illustra come sia sempre vissuta con gli autori che ho letto e studiato e che spesso ho fatto vivere – in me – di un'ulteriore vita. Insomma, tutti loro, come forse preciserebbe il joyciano protagonista di Stephen Hero, si sono epifanizzati.

Pensa che sia più semplice la scrittura per un pubblico infantile rispetto a quella per un pubblico adulto?

Dipende dall’inclinazione del singolo scrittore. Per rivolgersi ad un pubblico infantile occorre senz’ombra di dubbio spogliarsi del linguaggio colto: in tal modo, se ad esempio si scrivono favole, si riesce a porgere i messaggi più squisitamente morali con buone possibilità che essi vengano recepiti. È questione di empatia linguistica.

Ha mai scritto un’opera seguendo le indicazioni di mercato piuttosto che l’ispirazione?

Mai.

Pensa che gli italiani siano una popolazione di lettori, di scrittori, entrambe e nessuna di queste ipotesi?

È risaputo che oggigiorno – non parlo solo dell'Italia – si legge poco e in modo differente rispetto al passato. Per stare al passo, ad esempio, il mercato che rivolge la sua produzione di periodici all'average man, punta su riviste con articoli brevi, che trasmettano poche e accessibili nozioni, il tutto arricchito di immagini; oppure allega libri di piccola stazza che è possibile ottenere aggiungendo un sovrappiù al prezzo del periodico. Non ho tuttavia compiuto studi particolari per dare alla mia risposta un supporto specialistico.

Gli italiani un popolo di scrittori? Dappertutto sempre più persone si avvicinano alla scrittura (già Leopardi sottolineava polemicamente questo fenomeno).

Ha mai avuto contatti con scrittori famosi? Può descrivere l’evento vissuto?

Ho vissuto diversi incontri, più o meno intensi, con scrittori di fama. Tra tutti vorrei ricordarne uno, non perché sia tra i più significativi in termini di «apprendistato», ma per l’atmosfera che da tale incontro promana.

Salvator Gotta (uno scrittore di cui ho fruito solo antologicamente dato che non lo sento vicino alla mia sensibilità) lo incontrai in svariate occasioni, anche perché con lui mia madre aveva amici comuni.

Quando andammo a trovarlo, mia madre e io, a Villa degli Aranci, la sua casa di Portofino, io avevo quindici anni, perciò i ricordi che mi sono rimasti non si possono certo dire esaustivi: sono solo medaglioni e come tali li proporrò.

Lo rammento alto, imponente, un poco instabile e vivacemente perso nei ricordi che si snodavano quando visitammo con lui la sua galleria di fotografie autografate, che lo ritraevano con numerosi personaggi della cultura del suo tempo (ricordo ad esempio Irma ed Emma Gramatica). Al nostro plauso, lo sento schermirsi: «No, non ho tante cose e tanti riconoscimenti perché sono bravo, ma perché ho vissuto a lungo.»

In un altro medaglione lo vedo alzarsi, appoggiandosi al braccio di mia madre e pregandola di accompagnarlo in giardino: voleva infatti mostrarci la villa di fronte alla sua, nella quale era vissuto il pittore Giuseppe Amisani, morto d’infarto durante una gita a Camogli in compagnia – tra gli altri – del giornalista Giulio De Benedetti e dello stesso Gotta. Era stato proprio quest’ultimo ad indurre l’amico pittore ad acquistare la villa che fronteggiava la sua. In una pubblicazione uscita per la commemorazione del trentesimo anniversario della morte di Amisani, Gotta spiega: «Solo un breve tratto di giardino ci separava. Cosicché – specie nei mesi d’estate – si viveva una vita quasi comune, parlandoci dalle finestre, attraverso il giardino.»

Amo profondamente Amisani, soprattutto l’Amisani ritrattista: sono la vivacità dei suoi ritratti, la vita che da essi sembra balzare, i colori dati a campiture sapienti che mi colgono; è, inoltre, e come la definì lo stesso Gotta, «la sua tecnica nervosa e squillante» che mi affascina. Uno dei quadri che prediligo è Marichette concerto, olio su legno, che, appartenendo alla collezione privata di amici, m’incanto ad osservare ogni volta che vado a trovarli. È come un rito per me: salgo le scale della loro casa secentesca, attraverso il lungo corridoio gettando uno sguardo agli affreschi del soffitto, sosto nel salone della musica e poi mi accomodo nel salotto che ha le pareti coperte di Amisani. Marichette si fa osservare: non guarda chi la guarda, perduta dietro una chimera, ma offre la sua giovinezza allo sguardo di chi vuole penetrare il suo segreto.

Ricordo chiama ricordo, perdoni la divagazione. Ora torno a Gotta.

In un terzo medaglione lo sento accennare alle sue opere di cui rammento solo il suo citare la saga dei Vela.

In un ultimo medaglione ci vedo chiacchierare anche con la signora Mirella, la governante dello scrittore, donna pratica e assai cortese. Ricordo perfettamente che, quando gli dicemmo che avevamo incontrato poche settimane prima suo figlio, il dottor Massimo, in occasione di una manifestazione avvenuta presso il circolo culturale fondato dagli amici che avevamo in comune con lo scrittore, quest’ultimo sembrò animarsi particolarmente, facendosi prendere da una sorta di ansia febbrile, come se il figlio fosse arrivato qualche istante prima e stesse per entrare in casa. E mi intenerisce quanto il figlio stesso ebbe a dirci: quando il padre, benché famoso, vedeva il suo nome stampato, ne era felice come un bambino.

Ha mai avuto un blocco nella scrittura? Se sì, come è riuscito a superarlo?

Mi è capitato piuttosto di superare un blocco psicologico per il tramite della scrittura.

Ero appena uscita da un tunnel in cui avevo camminato per molti mesi senza intravederne la fine e lottato per non smarrirmi nel buio annientante. In quel periodo non riuscivo a scrivere opere lunghe e impegnative perché la lotta che stavo sostenendo mi assorbiva ogni rimasuglio d'energia. Uscita dal tunnel, non potei ricrearmi in fretta: gli altri avevano tentato (senza riuscirvi, ma quei mesi di tensione insopportabile mi avevano oltremodo fiaccata) di dimostrarmi in modo lento, subdolo e crudele come io fossi semplicemente una presenza inutile da levare di mezzo. Ad un certo momento intuii il fatto che, se volevo ricrearmi, dovevo provare, non a loro, ma a me stessa, che ero in grado di fare qualcosa che non facevo da tempo: scrivere un'opera di largo respiro che avrebbe rappresentato per me una sorta di riscatto. Scrissi infatti una pièce che mi soddisfece sia dal punto di vista letterario sia, naturalmente, per il significato che avevo annesso all'operazione.

Si reputa un artista?

Non sono così immodesta da considerarmi un artista, ma neanche così modesta da non ritenermi del tutto tale. In medio stat virtus.

Quando ha deciso di pubblicare?

La prima pubblicazione di una mia lirica avvenne nel 1981, senza che me lo aspettassi: per la miglior poesia avevo infatti vinto un concorso letterario e il mio lavoro fu ospitato da un periodico.

Da allora cominciai a pubblicare su riviste, su quotidiani e in antologie; recentemente sono usciti alcuni volumi di poesia e di prosa.



[1] Laura Lepri avverte: "Purtroppo viviamo in un equivoco: visto che per parlare usiamo le parole, pensiamo di essere in grado di usare le parole anche per scrivere, e crediamo di poter fare a meno di leggere ciò che è stato scritto prima di noi."